| | “Fuori gioco”, un percorso fra sogni e memoria L’ultimo romanzo del giornalista catanese Salvatore Scalia Difficile non rimanerne rapiti, affascinati. Difficile giungere fino all’ultimo capoverso con un interesse scemato man mano che le pagine da leggere diventano sempre meno. Difficile perché, come spesso accade nei romanzi, la retorica a un certo punto fa la propria apparizione possente, trova uno spazio tutto per sé e tiene compagnia a facili moralismi e scontate traiettorie linguistiche. E per questo che, in un tempo in cui, in buona parte dei casi, apparire è pubblicare e pubblicare è apparire, leggere “Fuori gioco” (Marsilio, pp. 125, euro 12) di Salvatore Scalia, è una salvifica boccata d’aria in una mare di insignificante, facendo i dovuti distinguo, presunzione letteraria. Protagonista un giovane di Mascalucia, paese alle falde dell’Etna, violato da una cementificazione selvaggia che negli anni Settanta – Ottanta ha impoverito buona parte della zona etnea, ma potrebbe benissimo essere un giovane di un qualunque paese di provincia, potrebbe benissimo essere uno dei tanti alla ricerca di se stesso fra palloni da calciare e prostitute da pagare per soddisfare biologici desideri sessuali. E se la dimensione tempo - spazio è ben precisa, non facciamo comunque fatica a trasporre il tutto nel presente in desideri e fallimenti che non conoscono unità definite e non rimangono ai margini di apparenze letterarie. La veridicità dell’eloquenza ci conduce nel dire tratteggiato da cadenze dialettali di un “parlato” locale a volte intinto di espressioni colorate che regalano una nota in più al racconto che sfocia in una parabola esistenziale senza goal finale. La “porta” di un campo di calcio diventa, quindi, metafora di sogni senza i quali risulterebbe difficile andare avanti, proseguire nel comune cammino di tutti i giorni. I sogni affidati alla memoria, a quel percorso lento ma incisivo, costante, pieno che solo il ricordo sa trasmetterci per premiarci o punirci. Ed è la memoria quella a cui Scalia fa riferimento rivedendo e rivivendo un lontano novembre 1969 fino a approdare al mese di ottobre del 2001. La memoria fatta di parametri messi a confronto si esterna nella parola che non si piega a effimeri bagliori ma che si trasforma in valore esistenziale. Memoria a cui non si ci può sottrarre e che induce l’autore a volere ripercorrere la vicenda di un uomo, la vita di tanti. E lo fa regalando al lettore ora la misura di giusti sentimenti, ora di inverni dell’anima con una soluzione finale degna di nota, quasi poetica, toccante, a tratti commovente, nella favola realisticamente triste che, per sfortuna se non in toto, almeno in parte, diversi giovani hanno vissuto. E quell’immaginario pallone, significante di dimensioni sociologiche, che non oltrepassa la rete per restarne fuori a un centimetro dalla vittoria stringe il cuore forse più della stessa malformazione congenita che impedirà al protagonista la sua ascesa alla gloria calcistica. Il resto è nelle parole dell’autore, giornalista per vocazione che, come già nel suo romanzo d’esordio “La punizione”, sempre edito da Marsilio, apre il nostro cuore a vissuti sconosciuti o già dimenticati. “… Nella sala d’aspetto del giornale si presentò un ometto esile, pallido, timoroso anche dell’ombra sua. Avevo deciso di incontrarlo per scrupolo di coscienza. Finalmente mi sentivo liberato da una storia che mi aveva tormentato l’immaginazione per anni. Sapevo perfettamente che non avrei cambiato una virgola, avendo scelto deliberatamente di scrivere basandomi sui ricordi ed emozioni…”. Le stesse emozioni lasciano spazio alla riflessione e si collocano non ai margini del dire ma nell’essenza stessa del dire in una testimonianza priva di effimeri bagliori e profetizzanti orpelli. Rita Caramma | | | |