Il Manifesto di Venezia per il rispetto della parità di genere nell'informazione
Sabato 25 novembre a Venezia la presentazione ufficiale a cura della Commissione Pari Opportunità della Fnsi. Appuntamento alle Sale Apollinee del Teatro La Fenice, alle 10.30, nella Giornata mondiale contro la violenza sulle donne
Una corretta informazione per contrastare la violenza sulle donne, come chiede la Convenzione di Istanbul. È la sfida ambiziosa che pone il Manifesto di Venezia, ovvero il Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell'informazione (contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini) che verrà presentato ufficialmente sabato 25 novembre, dalle 10.30 nelle Sale Apollinee del Teatro La Fenice, con il patrocinio del Senato, della Camera, del ministero dell’Istruzione e del Comune di Venezia.
«Perché Venezia? Perché è la città che ha dato i natali a Elena Lucrezia Corner Piscopia, prima laureata al mondo il 25 giugno 1678. Perché il Veneto? Perché è la regione che ha dato i natali a Tina Anselmi, prima ministra della Repubblica italiana, nominata il 29 luglio 1976. Perché il 25 novembre? Perché è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Perché il Teatro La Fenice? Perché da anni è in prima linea in una originale campagna di denuncia culturale del femminicidio», spiega la Cpo Fnsi.
L’iniziativa rivolta alle giornaliste e ai giornalisti vede tra i primi organismi firmatari: Commissione Pari Opportunità FNSI, Commissione Pari Opportunità Usigrai, GiULiA Giornaliste, Sindacato Giornalisti Veneto, Sindacato Unitario Giornalisti della Campania, Associazione Stampa Friuli Venezia Giulia, Associazione Ligure dei Giornalisti, Associazione Stampa Subalpina, Associazione della Stampa di Basilicata, Associazione della Stampa Sarda, Associazione Stampa Toscana, Associazione Stampa Emilia Romagna, Sindacato dei Giornalisti del Trentino Alto Adige, Associazione Stampa Valdostana, Associazione Siciliana della Stampa, Associazione della Stampa di Puglia, Associazione Stampa Romana, Unci del Trentino Alto Adige.
Il Manifesto di Venezia
Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini. Venezia, 25 novembre 2017
Sistematica, trasversale, specifica, culturalmente radicata, un fenomeno endemico: i dati lo confermano in ogni Paese, Italia compresa.
La violenza di genere è una violazione dei diritti umani tra le più diffuse al mondo: lo dichiara la Convenzione di Istanbul, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa nel 2011 e recepita dall’Italia nel 2013, che condanna «ogni forma di violenza sulle donne e la violenza domestica» e riconosce come il raggiungimento dell’uguaglianza sia un elemento chiave per prevenire la violenza. La violenza di genere non è un problema delle donne e non solo alle donne spetta occuparsene, discuterne, trovare soluzioni. Un paese minato da una continua e persistente violazione dei diritti umani non può considerarsi “civile”.
Impegno comune deve essere eliminare ogni radice culturale fonte di disparità, stereotipi e pregiudizi che, direttamente e indirettamente, producono un’asimmetria di genere nel godimento dei diritti reali.
La Convenzione di Istanbul, insiste sulla prevenzione e sull’educazione. Chiarisce quanto l’elemento culturale sia fondamentale e assegna all’informazione un ruolo specifico richiamandola alle proprie responsabilità (art.17).
Il diritto di cronaca non può trasformarsi in un abuso. “Ogni giornalista è tenuto al “rispetto della verità sostanziale dei fatti”. Non deve cadere in morbose descrizioni o indulgere in dettagli superflui, violando norme deontologiche e trasformando l’informazione in sensazionalismo.
Noi, giornaliste e giornalisti firmatari del Manifesto, ci impegniamo per una informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali, giuridiche. La descrizione della realtà nel suo complesso, al di fuori di stereotipi e pregiudizi, è il primo passo per un profondo cambiamento culturale della società e per il raggiungimento di una reale parità.
Pertanto riteniamo prioritario:
1. inserire nella formazione deontologica obbligatoria quella sul linguaggio appropriato anche nei casi di violenza sulle donne e i minori;
2. adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere e assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate;
3. adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale, sociale, culturale;
4. attuare la “par condicio di genere” nei talk show e nei programmi di informazione, ampliando quanto già raccomandato dall’Agcom;
5. utilizzare il termine specifico “femminicidio” per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne e superare la vecchia cultura della “sottovalutazione della violenza”: fisica, psicologica, economica, giuridica, culturale;
6. sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano “violenze di serie A e di serie B” in relazione a chi subisce e a chi esercita la violenza;
7. illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli nei confronti di prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere;
8. mettere in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla violenza e dare la parola anche a chi opera a loro sostegno;
9. evitare ogni forma di sfruttamento a fini “commerciali” (più copie, più clic, maggiori ascolti) della violenza sulle le donne;
10. nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, evitare: a) espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell’identità e della dignità femminili; b) termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento; c) l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale” o “oggetto del desiderio”; d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via. e) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da chi subisce la violenza, nel rispetto della sua persona.